Antonio Moresco, uno scrittore fuori da questo spaziotempo

Lo scrittore Antonio Moresco, classe 1947, già seminarista, già nei gruppi della sinistra extraparlamentare degli anni 70, a partire dai trenta ha iniziano ad avere l'ossessione della scrittura e per diciassette anni non c'è stato verso che fosse pubblicato; tant'è che i suoi primi libri – usciti per Bollati Boringheri a partire dal 1993 – erano tutti inediti risalenti a dieci e più anni prima.
Bussava alle porte di "coloro che potevano avere esperienza di talent-scout", come per esempio Goffredo Fofi, e i suoi testi venivano sempre sistematicamente respinti da coloro che erano (e sono tuttora) nel giro dell'editoria italiana.
Questo suo peregrinare alla ricerca di una pubblicazione, è stato poi da lui descritto anni dopo in un libro intitolato "Lettere a nessuno". La storia è sempre la stessa: gli intellettuali con una poltrona sotto il sedere non leggono veramente ciò che gli arriva sulle scrivanie da cui pontificano al mondo attraverso giornali e libri, e possono benissimo – con estrema facilità – non rendersi conto di avere davanti un grande scrittore, possono non vederlo nemmeno.

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Nel caso di Moresco, abbiamo di fronte un autore eccezionale, e lo si vede già a partire dai suoi primi libri usciti, "Clandestinità" e "La cipolla". Autore eccezionale ma niente affatto facile, che ha bisogno di attenzione e, soprattutto, di curiosità. Probabilmente chi si avvicina a Moresco deve entrare in risonanza con quell'ossessione che lo ha spinto a scrivere, per esempio, un'opera monumentale ("opera mondo" certi dicono) di più di mille pagine, i "Canti del caos", la cui elaborazione e stesura è durata un quindicennio e, dopo essere stata pubblicata la prima parte da Feltrinelli, la seconda da Rizzoli, la terza – uscita nel marzo dello scorso anno – è uscita per Mondadori, la casa editrice principe in Italia.
Antonio Moresco è un UFO, ecco perchè dal '77 (anno celeberrimo) al '93 (altro anno celeberrimo) non lo VEDEVA nessuno. Un UFO può vederlo soltanto chi crede alla sua – possibile – esistenza, per gli altri, per quelli che non ci credono, per i razionalisti scettici e incazzati, si tratterà sempre o di un pallone sonda o di un fulmine globulare.
Le storie che racconta sono allo stesso tempo crude e molto fantasiose, così ricche di una fantasia estrema (qualcuno la definirebbe "malata") da far rimanere sconcertati. Nelle prime opere pubblicate, Moresco utilizza un modo di scrivere estremamente realistico per quanto riguarda ambienti, situazioni e personaggi, ma nello stesso tempo allucinatorio, si direbbe quasi autistico, ma di un autismo consapevole e coerente. E non veniva capito.
I suoi testi, molto probabilmente, venivano considerati "poco fruibili dal mercato", gli si consigliava di venire incontro ai "gusti del pubblico", produrre roba più usa & getta e meno pretenziosa. Ma la ricerca dello scrittore non poteva dirigersi verso le storie di genere da leggere nel tempo libero, e nemmeno verso un tipo di scrittura magari di tipo più elevato dal punto di vista culturale, ma legata all'appartenere a uno dei clan dell'intellettualismo italiano.
Questo lo si vede nel volume dei "Canti del caos" completi, 1072 pagine che raccontano una non storia di un non mondo, dove violenza, pornografia, religione, storia, marketing folle, si avviluppano tra una moltitudine di personaggi e situazioni ambigui di cui è facile perdere il filo – della narrazione – ma non dello stile.
E' chiaro che uno scrittore così, sarà banale scriverlo, ma lo si ama o lo si odia, come si suol dire non ci sono vie di mezzo. "Canti del caos" è una specie di magma che rifiuta l'epoca della codificazione narrativa dello spettacolo, dei generi anche se gestiti in maniera inedita e innovativa (ma su questo percorso spaziotemporale che ha esaurito le sue possibilità non vi sono più spazi di innovazione, a nostro parere), rifiuta anche – a dire dello stesso autore – il postmoderno, la citazione di altri libri e altri narratori. Moresco non fa nulla di tutto ciò, si immerge in quello che sta scrivendo – peraltro scrive con la penna sui fogli,  come ha riferito – dimenticando ogni opera passata e presente, dimenticando ogni stile che non sia quello del suo delirio realistico che si snoda pagina dopo pagina.
L'atmosfera claustrofobica è la stessa delle prime opere, ma qui ogni aggancio con un qualcosa che non sia un "Oggetto Letterario Non Identificato" salta per aria. E' probabile che i rifiuti sopportati da Moresco per lunghi anni (e nel pieno di quegli ottanta dove la sinistra in cui militava quando era giovane si era sciolta nelle prime avvisaglie della società del marketing) fossero dovuti al subodorare, da parte degli editori e degli intellettuali a cui venivano fatti leggere i suoi testi, una sottotraccia che poi sarebbe uscita fuori alla luce del sole solo con i "Canti del caos" appunto, senza più la foglia di fico della comprensibilità narrativa che ancora traspariva nei primi libri.
"Non ci siamo", dovevano pensare quelli nelle redazioni che leggevano il materiale spedito da Moresco (e regolarmente rifiutato), "Non ci siamo, questo autore chi si crede di essere? Non è nessuno e si cimenta a fare il Joyce dei poveri…". Chi fa i libri vuole roba che venda, e Moresco – lo sapevano, lo temevano – non avrebbe venduto. E allora lo rifiutavano.
Poi, come ha raccontato lui stesso, è capitato come, presso l'ultima casa editrice che aveva raggiunto (ormai non credendoci quasi più, a quarantasei anni) – la Bollati Boringheri – vi fosse un tizio il quale, leggendo il testo che Moresco aveva portato in visione, aveva colto delle assonanze con certe sue esperienze generazionali di vita e allora, per puro caso – anche se noi crediamo che il caso non esista affatto – cominciarono a essere pubblicati i suoi scritti, dopo tanta fatica.
La nostra attenzione verso questo scrittore, al di là di tutto, al di là dei suoi fans e stroncatori senza pietà, è dovuta a come Antonio Moresco voglia, come dice con le sue parole, "turbare il sonno cimiteriale", irrompere – con la sua pretesa (fondata o meno) di essere un autore superletterario, alla Musil, alla Joyce, alla Schnitzer per intenderci – in un periodo dove tutto è fagocitato da una finzione voluta e perseguita ostinatamente, la finzione della globalizzazione, la finzione dei mass media, attraverso i quali anche persone senza cultura, senza esperienza (e soprattutto senza niente da dire) si possono improvvisare scrittori, perchè vengono fatti conoscere dal Regime dello spettacolo. E' quella atmosfera postmoderna satura di aria condizionata dei supermercati del libro, delle multisala cinematografiche che proiettano (ancora?) film global, quel voler pensare, mettersi nell'ordine di idee, che la letteratura sia solo quella che si stampa coi Meridiani Mondadori o Le spighe Einaudi, quindi roba del passato, la quale non è al suo posto in questo tempo, per dirla con una bellissima frase di Fabrizio Pittalis, "rosa di gelato scaduto", è contro tutto questo che Moresco si scaglia. E non attraverso il piagnisteo, ma attraverso l'esempio di una dedizione alla scrittura quasi da monaco amanuense nella sua cella del convento.
Anche la sua faccia è qualcosa al di fuori da questo attuale tempo, l'abbiamo notato da subito, non è difficile rendersene conto. Ci dà l'aria di una persona ibernata in un epoca in cui esistevano chiaramente cose come la letteratura, e scongelata in questo tempo che non c'entra nulla con la sua faccia. Un epoca di tronisti su Mediaset, di automobili con troppa plastica e componenti elettronici, di cantanti usa e getta che cantano cose codificate da una vita. Un'epoca senza più decenni.
A noi questo ci piace di Antonio Moresco: che è visibilmente, platealmente, non in sintonia coi tempi insipidi – perchè oltre la Storia – che viviamo da quindici anni e più.

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